martedì 27 gennaio 2015

Liberarsi dagli automatismi

Noi crediamo di essere liberi, siamo portati a pensare che le nostre azioni siano atti liberi, ma a ben vedere la nostra è più che altro una sensazione di libertà, che deriva dal fatto che ignoriamo tutto l'insieme di cause da cui siamo mossi. 
Immaginiamo una palla da biliardo che potesse avere una qualche forma di coscienza di sé ma non potesse percepire la presenza delle altre palle che la urtano. Questa palla potrebbe pensare di essere libera, di poter decidere in che direzione muoversi; ma noi da un punto di vista più ampio e conoscendo le leggi del moto vedremmo chiaramente che i suoi movimenti sono determinati necessariamente dalla traiettoria e dalla velocità delle altre palle che la colpiscono. La palla da biliardo può pensare di essere libera solo se ignora le forze da cui in realtà è mossa. 
Le nostre azioni il più delle volte sono determinate da un insieme di cause: ci limitiamo a reagire meccanicamente a certi stimoli. Ad esempio, una persona ci dice qualcosa che percepiamo come una critica e noi reagiamo con rabbia, un'altra persona ci dice un'altra cosa e noi ci rattristiamo, vediamo un certo comportamento in qualcuno e scatta un'altra reazione, e così via. Si tratta di risposte automatiche che riproponiamo sostanzialmente uguali a se stesse o con piccole varianti. Una risposta automatica è una risposta necessaria, non possiamo fare altrimenti, sappiamo reagire solo in quel modo, nel modo che ci viene spontaneo, nel modo che abbiamo imparato con la nostra educazione, spesso modellando i nostri genitori o altre figure di riferimento, nel modo che abbiamo più a lungo frequentato e a cui siamo portati da una serie di forze interne per lo più inconsce. In questo processo che segue lo schema stimolo-risposta non c'è spazio per la libertà. Siamo alla mercé degli eventi e delle altre persone. Così, mentre manteniamo la sensazione di essere liberi, il nostro comportamento è per lo più meccanico.
Come fare per liberarsi da questi automatismi? C'è un solo modo, una sola strada: quella di iniziare a prenderne consapevolezza, cioè a renderci conto di quanto reagiamo piuttosto che agire, e di quali sono le nostre parti interne e le energie coinvolte in queste reazioni. Renderci conto che siamo meccanici significa anche smettere di ritenere che le nostre reazioni siano tutte deliberate o giuste o naturali, significa smettere di giustificarci, imparare ad osservarci dal di fuori e restare aperti ai feedback che ci vengono dagli altri. 
Ci sono vari stadi di uscita dagli automatismi. Al livello zero non c'è alcuna consapevolezza: reagisco in modo automatico e non me ne accorgo. A questo livello se qualcuno tenta di farmi notare qualcosa del mio comportamento mi giustifico, oppure critico e attacco. 
Un primo livello di consapevolezza è quando riusciamo a posteriori a renderci conto di essere caduti in un automatismo: reagisco nel mio solito modo, non me ne accorgo, vado avanti, dopo un po', quando è passata la tempesta emotiva, guardando indietro quello che è successo mi dico: “accidenti, ho reagito nel mio solito modo automatico, ci sono ricaduto di nuovo”. 
Un secondo livello è quello in cui mentre agiamo c'è una piccola voce dentro di noi che ci fa notare che stiamo agendo in modo automatico, ma anche se lo riconosciamo, non riusciamo a fare niente per cambiare e continuiamo a reagire emotivamente nel nostro solito modo disfunzionale. L'energia dell'abitudine, il solco scavato dal nostro comportamento automatico è ancora troppo forte: abbiamo la consapevolezza più o meno vaga che stiamo ricadendo lì, ma non riusciamo a fare diversamente. 
Al terzo livello di consapevolezza ci rendiamo conto che siamo caduti nell'automatismo e a un certo punto riusciamo a uscirne volontariamente: riusciamo a fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevamo mai sperimentato, un atto libero, riusciamo a mettere in campo una risorsa nuova che non avevamo ancora mai attivato in quella situazione e questo ci permette di uscire dallo schema in cui eravamo prigionieri, di liberarci dalla visione e dall'emozione negativa in cui eravamo caduti e risolvere la situazione in un modo nuovo e più funzionale. 
Ai livelli successivi, contrassegnati da sempre maggior libertà, inizialmente si riduce il tempo che si passa nella fase di reazione automatica fino al punto in cui ci accorgiamo che staremmo per cadere in un automatismo ma ne usciamo ancor prima di entrarci e prima di entrare nel corrispondente stato emotivo. Ci accorgiamo che c'è una tendenza a una risposta automatica, la osserviamo e la lasciamo andare: a quel punto l'automatismo è disattivato e possiamo dire di iniziare ad avere libertà di scelta nella nostra vita.

domenica 18 gennaio 2015

Le Quattro Dimore Divine

Con il termine Brahmavihāra nel Buddhismo si indicano quattro qualità o stati mentali altamente desiderabili, detti i quattro incommensurabili o le quattro forme del vero amore.
Letteralmente il termine significa “Dimore Divine”: nella misura in cui riusciamo a generare in noi questi stati mentali e a stabilirci in essi, dimoriamo presso Dio, siamo come in paradiso, ma non dopo la morte in una ipotetica vita futura, ma proprio qui e ora mentre viviamo la nostra vita quotidiana. Come tutti gli stati mentali anche le quattro dimore divine dipendono in ultima analisi da noi e non dalle circostanze. Questo significa che se la nostra mente è sufficientemente allenata possiamo imparare a generare in noi questi stati indipendentemente dalle circostanze e anzi possiamo imparare a portarli proprio nelle situazioni difficili della nostra vita. Questi quattro stati mentali sono: Mettā, Muditā, Karunā e Upekkhā.

Mettā è la gentilezza amorevole, l'amore e la benevolenza senza discriminazione che si irradia su tutti e che desidera il bene e la felicità dell'altra persona senza chiedere nulla in cambio.
Tradizionalmente, nella meditazione di Mettā, si invia amorevole gentilezza innanzitutto a se stessi, poi a un amico o a una persona verso cui proviamo gratitudine, poi a una persona indifferente, quindi a una persona difficile o un nostro nemico e infine, progressivamente, a tutti gli esseri. Durante la meditazione si concentra l'attenzione su alcune frasi (“che tu possa essere al sicuro, libero dalla sofferenza, in pace, felice”) che hanno lo scopo di farci cambiare stato mentale, cioè di farci passare da una mente di odio, indifferenza o giudizio, a una mente d'amore. Cambiare consapevolmente il proprio stato mentale andando al di là degli automatismi è l'atto libero per eccellenza. Questo atto, che è un atto interno, rende poi possibili una serie di cambiamenti esterni: quando invece pretendiamo di cambiare il mondo esterno senza aver cambiato il nostro stato mentale, inevitabilmente andiamo incontro a grosse difficoltà.

Muditā è la gioia compartecipe, la gioia altruistica, la capacità di partecipare alla gioia altrui, l'opposto dell'invidia. Quando accediamo a questo stato mentale realizziamo che la felicità delle persone intorno a noi è la nostra stessa felicità: come posso essere felice se intorno a me ci sono persone infelici? Muditā è offrire gioia all'altra persona e considerare la gioia altrui come la propria.

Karunā è la compassione. Compassione non è commiserare l'altro, compatirlo, averne pietà, tutti atteggiamenti che sottendono un giudizio, che tendono a mettere l'altro in una posizione di inferiorità rispetto a noi, ma è la capacità di vedere e comprendere la sofferenza dell'altro, di partecipare al dolore altrui. Karunā, che come tutti i Brahmavihāra è una forma di amore, è la capacità di riconoscere la sofferenza nelle persone che amiamo e la capacità e il desiderio di alleviare questa sofferenza. Questo ci porta ad aprirci all'altro, a sentire la connessione con lui, a renderci conto che la sofferenza accomuna tutti gli uomini, al di là della facciata che mostrano. Questo vale anche nei confronti delle persone che ci causano sofferenza o ci danneggiano in qualsiasi modo. Anche la persona che ci fa soffrire, anche il nostro nemico, a sua volta soffre. Se realizziamo questo possiamo iniziare a sentire la connessione anche con lui, lo vediamo nella sua umanità, vediamo la sua sofferenza e forse potrebbe arrivarci l'intuizione che anche noi, nelle sue stesse condizioni interne ed esterne, con la sua stessa storia, condizionamenti ed esperienze alle spalle, avremmo fatto esattamente quello che ha fatto lui.
Gesù ha detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Chi fa il male lo fa per ignoranza, chi provoca sofferenza lo fa per ignoranza. Riconoscere questo non significa giustificare il male, ma accedere a una visione che ci aiuta a comprendere in profondità e che ci dà gli strumenti per trasformare realmente la sofferenza. Compassione non è sottomettersi, rinunciare a difendersi, mettersi sotto l’altro, giustificare il male e l’ingiustizia: la compassione dà vera forza e vera protezione, se viceversa dimoriamo nell'odio non facciamo altro che distruggere noi stessi.

Upekkhā è equanimità. Il sole è equanime, risplende su tutti senza distinzioni. La terra è equanime: è in grado di ricevere e trasformare sia sostanze pure che sostanze contaminate. Equanimità è lasciare andare attaccamenti, preferenze e avversioni, è la capacità di osservare fatti, persone, situazioni ma anche pensieri, emozioni e sensazioni accogliendoli per quello che sono, senza giudizio. Questo atteggiamento genera una mente di pace, quieta e spaziosa e in questo spazio possiamo essere non reattivi e quindi liberi. Equanimità non è indifferenza, è un guardare dall'alto che permette di cogliere le distinzioni, di discernere con visione e intelligenza senza farsi guidare da attaccamenti e avversioni.
Il punto più alto dell'amore è l'amore incondizionato, equanime: Mettā, Muditā e Karunā possono applicarsi senza discriminazione alle persone più vicine come a quelle più lontane, fino a includere i nostri nemici e tutti gli esseri. L'amore che discrimina non è amore nel senso più profondo del termine: come ha detto Gesù non c'è nessun merito speciale ad amare solo chi ti ama e fa il tuo bene, tutti lo fanno. Il vero amore è equanime, è uno stato dell'essere che si irradia su ogni cosa. Il comandamento dell'amore “ama il tuo prossimo come te stesso” comporta il realizzare che io e il mio prossimo non siamo separati, ma profondamente interconnessi, ci apparteniamo e apparteniamo alla stessa Realtà.

domenica 11 gennaio 2015

Chi era Roberto Assagioli


Roberto Assagioli, psichiatra italiano fondatore della psicosintesi, nasce nel 1888, è di tredici anni più giovane di Jung e di trentadue anni più giovane di Freud. Proprio nelle lettere tra Freud e Jung si parla di Assagioli come una promessa per la diffusione della psicoanalisi in Italia. Assagioli tuttavia subito sintetizza le idee di Freud con la sua cultura molto vasta ed eclettica: si interessava oltre che di psicologia ed educazione, di teosofia, spiritualità, pensiero orientale, esoterismo, parapsicologia, mistica, letteratura.
L'inconscio di cui parla Freud, dice Assagioli, non è la totalità dell'inconscio ma una parte, che egli chiama inconscio inferiore. Qui vi sono pulsioni, istinti, conflitti e tutto quello che rappresenta il nostro passato, i nostri condizionamenti e quello che abbiamo rimosso. Ma questo non è tutto quello che costituisce la psiche umana perché c'è un'altra porzione di inconscio che Assagioli chiama inconscio superiore e di cui la psicoanalisi ignora l'esistenza. Quest'ultimo è il luogo delle potenzialità dell'uomo, il luogo dei valori etici, delle qualità dell'essere, delle intuizioni, delle ispirazioni artistiche. È il luogo dove è contenuto ciò che l'uomo può diventare, quindi il suo futuro, le qualità che può sviluppare. Anche se i contenuti di questa parte dell'inconscio non sono attualmente manifesti, sono appunto inconsci, tuttavia sono presenti almeno a livello potenziale. In questo senso la psicosintesi propone un superamento della psicoanalisi: oltre a riconoscere i bassifondi della psiche che ci sono, hanno il loro peso, la loro forza e non sono da sottovalutare, ammette e studia anche i piani superiori, inaugurando così la psicologia umanistica e transpersonale.

Fra gli avvenimenti della sua vita, durante il periodo fascista, Assagioli, di origine ebraica, fu arrestato con l'accusa di pacifismo e trascorse un mese in carcere. In questo meraviglioso passo dello scritto autobiografico “Libertà in prigione” egli racconta come si è confrontato con questo evento:

“Mi sono reso conto di essere libero di poter scegliere tra due atteggiamenti diversi nei confronti della mia situazione, dando ad essa un certo significato, oppure un altro, utilizzandola in un modo o in un altro. Potevo ribellarmi o sottomettermi passivamente, vegetando, oppure potevo indulgere nel malsano piacere dell'autocommiserazione, assumendo il ruolo del martire. Oppure ancora potevo prendere la situazione con umorismo considerandola come una nuova ed interessante esperienza. Potevo trasformarla in un periodo di riposo, o un periodo di pensiero intenso su questioni personali, riflettendo sulla mia vita passata, o su problemi scientifici e filosofici; oppure potevo approfittare della situazione per sottopormi ad un training delle facoltà psicologiche e fare esperimenti psicologici ben precisi su me stesso. O, per concludere, potevo farla diventare un ritiro spirituale: finalmente lontano dal mondo. Non avevo alcun dubbio: dipendeva da me.”
Ogni situazione della nostra vita può essere vista, interpretata e di conseguenza vissuta in modi molto diversi. Come già diceva Epitteto: “non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”. Il nocciolo della libertà umana sta nella possibilità di ristrutturare il significato di ogni situazione, anche quelle più difficili o tragiche e questo forse è l'unico atto veramente libero che possiamo compiere. Assagioli qui sembra aver contattato, realizzato profondamente questa libertà, che comporta il fatto che qualunque cosa accada abbiamo la possibilità di affrontarla senza farci travolgere, senza perderci.

Durante la guerra Assagioli fu costretto a scappare e nascondersi con il figlio nelle campagne per sfuggire alle persecuzioni naziste. In una lettera che scrisse in seguito agli amici racconta questi momenti e le difficoltà incontrate con una leggerezza e una ironia che colpiscono:

“Grand Hôtel des Ètables' Albergo di primo... disordine. Acqua corrente in tutte le camere... quando piove […] Ricco assortimento di insetti locali di straordinaria vivacità e intraprendenza […] Grande 'fuori programma' (senza preavviso): accurata imitazione di terremoto vulcanico con pioggia di schegge incandescenti. […]”
Assagioli incarnava profondamente questa qualità dell'umorismo nel senso più alto e pulito del termine, che non si mischia con giudizio o sarcasmo ma che è capacità di vedere le cose dall'alto, nelle loro giuste proporzioni, in modo da ridimensionarle, collocarle al loro posto, senza attaccamenti o avversioni. E questa qualità spirituale dello humor traspare dal suo volto e dal suo sorriso nei ritratti che abbiamo di lui.

lunedì 5 gennaio 2015

Sviluppare pienamente se stessi

Parto da una frase di Rollo May che nel suo libro “L'arte del counseling”, parlando di una persona con cui aveva lavorato, scrive: “La sua personalità era piena di piccole inibizioni e certo non era abbastanza libero da sviluppare pienamente le capacità creative di cui era dotato.”
Ogni uomo ha delle capacità creative che possono essere sviluppate pienamente: come una ghianda naturalmente può diventare una quercia, cioè rendere attuali tutte le sue potenzialità, così ogni uomo può portare a piena manifestazione le potenzialità che ha in sé.
Il punto è se siamo abbastanza liberi da permettere a queste possibilità di svilupparsi, o detto in altri termini, se ci sono degli ostacoli che impediscono che le nostre capacità si sviluppino. La domanda chiave che possiamo porci è proprio questa: cosa mi impedisce di sviluppare pienamente le mie potenzialità?
Detto per inciso, la risposta a questa domanda sarà tanto più interessante e produttiva quanto più sapremo guardare dentro di noi piuttosto che fuori di noi, e quindi trovare delle risposte che non riguardano tanto fatti, condizioni esterne, l'operato di altre persone, ma fattori interni, ovvero convinzioni, abitudini, modi di pensare, conflitti emotivi di vario tipo.
In assenza di ostacoli il processo naturale ci guiderebbe a sviluppare pienamente tutte le nostre potenzialità e quindi condurrebbe una persona che è portata per la musica a fare il musicista, un tipo pratico dotato di manualità a fare l'artigiano, chi è portato a dirigere o coordinare altre persone a diventare un leader, una persona che tiene molto al valore della giustizia a impegnarsi in organizzazioni per la difesa dei diritti umani, e così via. Stiamo parlando della possibilità di diventare ciò che siamo. E dato che ciascuno di noi è un essere unico e irripetibile, ciascuno di noi può dare un contributo specifico al mondo.
Possiamo pensare che se una persona non si sviluppa pienamente, lascia un buco nella storia dell'essere perché nessun altro potrà portare la sua specifica qualità al posto suo. Quindi sviluppare pienamente le proprie potenzialità e vivere una vita felice e realizzata è un dovere etico perché facendolo doniamo al mondo quella nostra individualità irripetibile che ci contraddistingue e diamo al mondo un contributo che solo noi possiamo portare.
Più avanti Rollo May dice che le personalità liberate dagli ostacoli e dalle tensioni interne si sviluppano naturalmente in progressione geometrica. C'è una tendenza naturale nell'uomo all'autorealizzazione, come sostiene Abraham Maslow, un altro grande padre fondatore della psicologia umanistica. In Motivazione e personalità” Maslow afferma: “What a man can be, he must be”, “Ciò che un uomo può essere, deve esserlo”. Dove questo “deve” non è una doverizzazione, non è l'adeguarsi forzosamente a una spinta esterna o a una spinta di una nostra parte superegoica a scapito delle altri parti e della persona nel suo complesso, ma è il dovere di obbedire a una spinta interna che va nella direzione dell'autorealizzazione, è un dovere nel senso che solo se lo adempiamo raggiungiamo la piena salute e il pieno sviluppo delle nostre potenzialità. La tendenza all'autorealizzazione, ad attualizzare ciò che è potenziale, se è lasciata libera, cioè se non ci sono ostacoli emotivi, condizionamenti, forze interne che ci remano contro, conflitti di vario tipo, tende a portarci a diventare quello che siamo, a diventare tutto ciò che siamo capaci di diventare, e la nostra vita è un continuo procedere in questa direzione che è la direzione del nostro Sé.